La vita non è un film, dicono.
Uno dei più grandi registi della storia rettifica dicendo che
Il Cinema è la vita con le parti noiose tagliate.
Potete non essere d’accordo, ribattendo che è un regista ad affermarlo.
Eppure quante volte vi siete ritrovati a raccontare degli aneddoti agli altri? Quante volte vedete la vostra vita in prospettiva, ne ripercorrete i momenti passati e inquadrate il tutto in un unico percorso? Sognate un riscatto, lavorate per una rivincita, investite nella vostra realizzazione?
La vita non sarà un film, forse, ma è senza alcun dubbio un percorso, cioè la costruzione di una storia. A prescindere dal grado di consapevolezza delle nostre responsabilità riguardo alla sceneggiatura.
È storytelling. Siamo storytelling. E il regista e lo scrittore, cioè noi, sono gli unici responsabili della comprensibilità della storia.
In altre parole, ognuno di noi deve compiere una scelta: essere un racconto comprensibile agli altri o non esserlo.
La comprensibilità è una scelta, ma compierla non significa tradire se stessi. Al contrario, scegliere la comprensibilità significa essere un racconto formalmente efficace di se stessi.
Ritorniamo ai film.
Se avete visto Mulholland Drive, penserete che sia un film completamente sconclusionato. Molti di voi avranno pensato di aver visto il film più assurdo della propria vita. Incomprensibile, noioso, senza né capo né coda. Certo, molti – me compreso – si sono immersi nel film e lo hanno apprezzato nonostante sia del tutto liquido e non strutturato. Ma questo perché tutti i film sono interessanti, ovvero tutti i tipi umani lo sono.
Il punto però è che MuIlholland Drive è un film in cui, per scelta, non si è investito nulla nel tentativo di renderlo comprensibile. Questo ovviamente non è un male, ma la totale assenza di una forma che determini comprensibilità influenza, inevitabilmente, la sostanza. Mulholland Drive, cioè, è un film che può essere solo apprezzato, ma non compreso e, per questo, non può che chiudersi su se stesso, essere oscuro e autoreferenziale. Cioè non può far altro che fallire, esattamente come la sua protagonista. In questo è magistrale.
Di nuovo, questo non è necessariamente un male e non ne fa un film che non valga la pena vedere, ma non è questo il punto.
Il punto è che chi non investe energie per strutturarsi in una forma universalmente comprensibile non può pretendere comprensione. Ed è quindi destinato a fallire.
La responsabilità, che lo si ammetta o meno, della nostra comprensibilità, è infatti solo nostra.
Per chiudere, tradendo l’intero articolo con un collegamento incomprensibile e sfociando in un odioso mare di razionalità, possiamo ritrovare nel contesto scientifico e tecnologico l’impatto impressionante che ha avuto nello sviluppo umano l’uso di una forma efficace e comprensibile: il metodo scientifico non ha introdotto solo la necessità della validazione sperimentale delle teorie, ma anche la necessità di essere comprensibili in ciò che si afferma attraverso l’uso di un linguaggio universale. È l’obbligo stesso all’uso della Matematica a rendere necessaria la formulazione di una teoria strutturata. Di nuovo, forma e sostanza camminano insieme.
Qualsiasi altro linguaggio rende la teoria una non-teoria, oppure una commedia da recitare in un teatro di sordi. Potranno apprezzarne i gesti, la scenografia, la bellezza, ma non la valorizzeranno come possono valorizzare qualcosa di contestabile da una comunità secondo lo stesso apparato formale.
La complessità, in tutto questo, non può essere un alibi. La (finta) complessità è l’alibi pretestuoso dei radical chic.
Non esiste complessità che un sistema formale non possa racchiudere, teoremi di incompletezza a parte.
(Immagini: opere di Eric Standley)


